Bisogna arrivare al punto che i treni e le strade siano insicuri, bisogna ripristinare il terrore e la paralisi… È necessario provocare la disintegrazione del sistema. Occorre una esplosione da cui non escano che fantasmi.
(Dal documento “Linea politica”, sequestrato durante le indagini successive alla strage del 2 agosto 1980).
Sabato 2 agosto 1980 la stazione centrale era affollata di turisti e delle persone che lì lavoravano: alle 10,25 un ordigno ad alto potenziale esplose nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna: lo scoppio fu violentissimo e provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d’aspetto di prima e seconda classe, dove si trovavano gli uffici dell’azienda di ristorazione Cigar, e di circa 30 metri di pensilina. L’esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso, in sosta al primo binario.
Riportiamo dal quotidiano “Il giorno”, 3 agosto 1980:
“Dapprima una fiammata – ha riferito un testimone che non ha voluto dare il nome – poi l’edificio si è come alzato ricadendo su se stesso. Ho visto due corpi letteralmente scaraventati sotto le carrozze del treno che era fermo in quel momento sul binario”.
Mario Greco, 34 anni di Spezzano Albanese (Cosenza) era sulla pensilina del primo binario, aspettava il treno per Venezia dove lavora: “Mi sono sentito sollevare da terra, poi sono caduto. C’era puzza di zolfo.”
Giuseppe Rosa, conducente di autobus di linea, era fermo a un semaforo ad un centinaio di metri dal luogo dell’esplosione: “Ho sentito uno scoppio e poi ho visto una nuvola nera alzarsi a 200 metri d’altezza. Sono corso verso la stazione a piedi ed è stata una scena che non potrò mai dimenticare: sembrava l’apocalisse. Sotto le macerie, a pochi metri dove dovevo parcheggiarmi, ho visto numerosi taxi”. E due loro conducenti sono tra le vittime accertate.
“Ero nei pressi della mia vettura – ha detto Pietro Castellina, 48 anni, conducente di taxi ricoverato al S. Orsola – e stavo parlando con alcuni colleghi quando è avvenuto lo scoppio. E’ stato secco e poi un polverone grigio e nero e pietre e frantumi ci cadevano da tutte le parti addosso. Erano con me una ventina di colleghi, tutti in attesa, nei pressi del luogo dello scoppio, di eventuali clienti”.
Il bilancio di questa strage, la più efferata compiuta nell’Italia repubblicana, fu di 85 morti e oltre 200 feriti.
Non era un “non luogo” la stazione di Bologna ma un posto significativo per la città: colpire la stazione fu, al di fuori della retorica, colpire un punto molto sensibile. La stazione di Bologna era un luogo vivo, conosciuto, vissuto, un luogo in cui si andavano a comprare giornali e riviste, in cui si consumava il caffè – l’ultimo della serata «per neutralizzare il vino» come canta Francesco Guccini o il primo della mattina per incominciare una nuova giornata -, in cui si passava e ci si fermava anche per mangiare e chiacchierare, in cui giungevano e partivano pendolari per studio, lavoro o per molte altre ragioni. La stazione di Bologna era considerata, come affermò Giovanni Spadolini il 2 agosto 1981 nel discorso tenuto a Palazzo d’Accursio, «punto d’incontro della realtà nazionale, così complessa e composita». Colpirla significò dividere l’Italia in due, interrompere il traffico ferroviario, anche se, in realtà, seppur parzialmente la stazione riprese a funzionare dopo poche ore dall’attentato. Bologna, infine, era un simbolo, in Italia e all’estero, del “governo delle sinistre”.