Una sorta di “pista nera” sembra avvalorata dalle prime indagini. Queste trovano uno degli spunti iniziali nell’anticipazione della strage che Carmine Esposito – un ex poliziotto con simpatie per l’estrema destra, che aveva appena trascorso un breve periodo di detenzione – aveva fatto una decina di giorni prima dell’evento alla Questura di Napoli. Qui aveva parlato con vari funzionari, tra cui il dr. Argenio della Criminalpol, preannunciando «un attentato ad un treno veloce in partenza da Napoli e che forse l’esplosione sarebbe avvenuta in una galleria». Al dr. D’Aponte della Digos, Esposito disse che l’attentato avrebbe dovuto avvenire su un treno con carrozze argentate, che D’Aponte individuò in quelle dei rapidi o dei treni provenienti da Parigi, e aggiunse che esso «sarebbe stato un modo per deviare le forze dell’ordine […] per poi fare un rapimento» di un leader politico quale Gava o Scotti. Quest’ultima circostanza sarà confermata anche da un altro funzionario, il dr. Monda, secondo cui Esposito parlò di «terroristi rossi», e dallo stesso Argenio che pure riferirà di «estremisti di sinistra», cosa invece negata dall’Esposito. Questi accennò della possibile strage anche al sostituto Procuratore della Repubblica di Napoli Miller, ma non fu preso molto sul serio, anche perché si pensò che egli, avendo fatto richiesta di una licenza di investigatore privato, cercasse di conquistarsi i favori dei funzionari. Già fin qui la cosa è singolare. Il giorno dopo la strage, inoltre, Esposito tornò in Questura, enfatizzando il suo preannuncio, e venne pertanto interrogato sulla fonte che gli aveva fornito la notizia. E a questo punto la vicenda sfiora l’incredibile, poiché egli la attribuì alla «percezione» di un cartomante (e successivamente alla moglie di questi «andata in trance»), cosa poi smentita dagli interessati, che anzi dichiararono di aver avuto il preannuncio proprio da Esposito.
Le indagini, dunque, si indirizzano verso l’ambiente e le frequentazioni dell’ex-agente, e in particolare verso il clan che fa capo a Giuseppe Misso, operante nella zona di via Duomo e della Sanità, responsabile tra l’altro di una clamorosa rapina al Banco di Pegni realizzata a settembre. Si tratta di un gruppo camorristico il cui leader ha forti simpatie di tipo neo-fascista, così come Esposito; entrambi frequentano la sezione Berta del Msi, così come la frequenta Massimo Abbatangelo, parlamentare di quel partito, che pure conosce Esposito da tempo. Sul clan Misso, peraltro, già da ottobre il pentito Block sta fornendo interessanti informazioni, parlando della “doppia valenza” dell’organizzazione: «comune, con riguardo all’attività delinquenziale ordinaria, e politico-ideologica»; «un’associazione politico-delinquenziale di destra», in cui si esplicherebbe la «duplice valenza delinquenziale del Misso, camorristica ed eversiva». A tali scopi sarebbe funzionale anche l’organizzazione di ex detenuti “Civiltà Nuova”, legata allo stesso Abbatangelo. Peraltro, proprio nel gennaio 1985, Misso parte per il Brasile assieme al suo sodale Pirozzi.
Le indagini, intanto, vanno avanti e le ipotesi si susseguono. L’ex direttore del Sismi Lugaresi, tra i promotori della precedente “operazione pulizia” nei servizi, davanti al Pm di Bologna Libero Mancuso si dice «convinto che la strage è stata compiuta per creare disorientamento dentro gli uffici giudiziari bolognesi [impegnati nelle nuove inchieste sulle stragi, nda], per bloccare ogni tentativo di accertare la verità […]. In attesa che questa Repubblica ritorni nelle mani del gruppo piduista». Negli stessi giorni il cerchio si stringe attorno alla Banda della Magliana e ai suoi alleati. A febbraio sono partite ulteriori incriminazioni, mentre «l’intrico degli spericolati affari di Carboni collegato al clan Calò viene ricostruito passo dopo passo», rivelando quella che il Pm romano definirà «una cospicua associazione di malfattori operante in tutta Italia e collegata con la mafia, la camorra, la delinquenza comune, l’alta finanza e i terroristi di estrema destra», «uno snodo tra l’attività delinquenziale più brutale e la […] sistemazione finanziaria degli enormi introiti dell’organizzazione». Poco dopo, anche la latitanza di Pazienza finisce.
Infine il 29 marzo, sempre nell’ambito delle indagini sulle organizzazioni criminali operanti a Roma, è arrestato Guido Cercola, che l’istruttoria dimostrerà essere il braccio destro e factotum di Pippo Calò a Roma. Il suo fermo ha conseguenze molto rilevanti per l’inchiesta sul 904. Ad esso infatti segue il ritrovamento, nell’appartamento dell’affittuario e sodale di Cercola (tale Virgilio Fiorini), di documenti che consentono di risalire allo stesso Calò, il quale viene arrestato assieme ad Antonino Rotolo e Franco Di Agostino. Nella stessa casa di Fiorini, inoltre, sono rinvenuti due congegni radioelettrici composti ciascuno di «una valigia A contenente un trasmettitore […] in grado di irradiare un segnale codificato» entro qualche chilometro, di «una scatola B contenente un trasmettitore […] ed un ricevitore di conferma del comando» inviato da A, e di sei scatole C (che però sono solo cinque nel secondo congegno) «contenenti ciascuna due ricevitori» dei segnali di A e B «e un trasmettitore di conferma» per B. Si tratta di un sistema «più che sufficiente ad attivare un accenditore a ponte» e «provocare l’esplosione di una carica» a distanza. Interrogato sull’origine dei congegni, Fiorini dichiara che gli sono stati affidati da Cercola a gennaio, circostanza che l’istruttoria accrediterà, attribuendola alla volontà di Cercola, mentre varie inchieste erano in corso, di disfarsi di materiale compromettente.
I congegni sono stati commissionati da Cercola a un certo Schaudinn, un cittadino tedesco su cui avremo modo di tornare, il quale riferisce di aver avuto nel settembre 1984 la richiesta di costruire «un’apparecchiatura idonea alla trasmissione di impulsi», finalizzata a collegare degli antifurti (sic!); solo in seguito, si sarebbe reso conto che i congegni servivano «per preparare attentati», e in ogni caso li ha consegnati tra ottobre e novembre. A sua volta Cercola dice che i congegni gli sono stati chiesti da un fantomatico “libanese”, figura che le indagini accerteranno essere un personaggio inventato, dietro cui egli cerca di nascondere Calò.
Intanto cominciano perizie e verifiche tecniche riguardo al tipo di strumenti usati per la strage. Un primo esperimento su congegni analoghi a quelli Schaudinn, realizzato dal dr. Randighieri, dimostra la loro «perfetta idoneità a cagionare un’esplosione su un treno in corsa». I periti bolognesi, dal canto loro, giudicano «improbabile» l’uso di un sistema radiocomandato, in quanto «troppo sofisticato, antieconomico»; e tuttavia una nuova verifica sperimentale, stavolta coi congegni Schaudinn originali, conferma l’ipotesi dello strumento radiocomandato, che era più sicuro per gli attentatori e, integrato da un “ritardatore”, dava loro «la certezza dell’esplosione in galleria»; inoltre si dimostra che la scatola C poteva essere stata predisposta alla stazione di Firenze, mentre il segnale di attivazione dell’accenditore poteva essere stato inviato presso la stazione di Vernio, prima che il treno entrasse in galleria.
Nella relazione consegnata il 6 maggio, inoltre, i periti bolognesi confermano che lo scoppio è stato provocato da ordigni che si trovavano in due valigie sul portapacchi, e individuano un primo componente dell’esplosivo nella pentrite. In una seconda, più precisa relazione sull’esplosivo, gli esperti ne individuano i componenti nella pentrite e nel T4 (ritrovabili assieme nel Semtex H), e, in misura minore, nella nitroglicerina e nel tritolo, secondo una miscela inesistente sul mercato e realizzata ad hoc «associando esplosivi completamente diversi per costituzione, impiego e provenienza», evidentemente per complicare le indagini. Inoltre, avendo già la prima perizia confermato la testimonianza di una viaggiatrice sopravvissuta, Rosaria Gallinaro, che aveva notato un uomo, salito alla stazione di Firenze, sistemare due borsoni sulla griglia portapacchi del corridoio anziché negli scompartimenti dove pure c’erano posti liberi, l’indagine passa alla Procura di Firenze, coordinata da Pierluigi Vigna.
Intanto l’11 maggio l’indagine su Cercola provoca un nuovo ritrovamento, stavolta in un casale di Poggio S. Lorenzo, presso Rieti, acquistato dallo stesso Cercola. Qui la polizia trova, nascosti in un’intercapedine, due pani di esplosivo plastico Semtex H (di cui uno ridotto di circa un chilo), sei cariche di tritolo (di cui una mancante di 40 grammi), nove detonatori e altro materiale affine. Vari quotidiani avanzano l’ipotesi che possa esservi un legame con la strage del 904; e in effetti, confrontando l’esplosivo ritrovato con la perizia su quello utilizzato per la strage, emerge la presenza in entrambi i casi del Semtex H, e in particolare di quel tipo di Semtex H in cui la pentrite prevale rispetto al T4. Quanto al casale, Cercola aveva fatto un’offerta d’acquisto nel novembre 1984, raggiungendo presto un accordo col proprietario, che glielo aveva consegnato a metà gennaio. Qui Cercola aveva fatto costruire l’intercapedine, come dichiarato da un operaio del Di Agostino, e qui era stato nascosto l’esplosivo, «in epoca immediatamente successiva alla strage». Il precedente proprietario, inoltre, riconosce Calò come colui che aveva accompagnato Cercola a visionare il casale. In un’agenda dello stesso Calò si trova traccia delle spese sostenute sia per l’acquisto dell’immobile, sia per strumenti “radio” che – coincidendo le cifre con quelle dichiarate da Schaudinn – sono evidentemente i congegni realizzati da quest’ultimo. Infine, anche il ritrovamento nel casale di un certo tipo di eroina e di particolari strumenti per la sua raffinazione confermano il coinvolgimento di Calò.
Peraltro la situazione giudiziaria di quest’ultimo si aggrava proprio in queste settimane. A giugno il giudice Viglietta emana la citata sentenza-ordinanza sulla Banda della Magliana, che conferma il ruolo del boss siciliano al suo interno. Il 3 agosto (il giorno dopo l’anniversario della strage di Bologna) avviene a Firenze un altro attentato con pentrite, T4 e tritolo; ne sarà poi accusato (come mandante) lo stesso Calò. Dieci giorni dopo, quest’ultimo è rinviato a giudizio con Carboni, Diotallevi e altri nell’inchiesta sulla Banda della Magliana.
Intanto gli accertamenti tecnici per il 904 proseguono. Un ulteriore esperimento con gli apparecchi Schaudinn conferma l’ipotesi che il congegno esplosivo sia stato predisposto a Firenze, e attivato a distanza a Vernio, prima che il treno imboccasse la galleria; e aggiunge che la mancanza di una delle scatole C, non utilizzabile al di fuori del sistema complessivo, rende plausibile che questo sia stato usato, e la scatola persa sia quella necessariamente «sacrificata nell’esplosione». Infine, la perizia depositata il 6 novembre afferma l’idoneità dei congegni a provocare l’esplosione di un detonatore del tipo di quelli di Poggio S. Lorenzo. C’è dunque una «perfetta compatibilità funzionale» tra i materiali ritrovati. Del resto – ammetterà lo stesso Cercola – solo per un motivo logistico i congegni erano ancora in casa Fiorini, ma sarebbero stati portati anch’essi al casale.
La “pista romana”, dunque, è suffragata da numerosi elementi, dalla «vocazione terroristica» segnalata dalla presenza del Semtex H in possesso del gruppo, alla corrispondenza tra gli esplosivi usati per la strage e quelli di Poggio S. Lorenzo, alla compatibilità di questi ultimi coi congegni radiocomandati.
Anche la “pista napoletana”, però, fa dei passi avanti. In poche settimane vengono fermati vari membri del clan Misso. Il primo è il giovane Carmine Lombardi. Il 28 febbraio, è il turno di Pirozzi, il cui ritorno dal Brasile è segnalato da una telefonata anonima, mentre Esposito viene arrestato per reticenza. Il 5 marzo però Lombardi resta ucciso in un agguato: non potrà quindi dire nulla agli inquirenti. Un mese dopo, l’interrogatorio di un cognato di Block, Cardone, anch’egli legato al clan, conferma le simpatie neofasciste di Misso e il fatto che negli ultimi mesi si tenevano riunioni riservate solo agli elementi più fidati del gruppo, «per discutere argomenti che non potevano riguardare la loro normale attività delinquenziale, ma qualcosa di diverso e di più delicato». Si tratta di una testimonianza che pare accreditare la “doppia valenza” dell’organizzazione, ribadita dallo stesso Block, il quale racconta anche della presenza a Napoli, nell’estate 1984 di tre «latitanti di destra», diretti poi a Firenze per tornare a Napoli in dicembre, e di un’offerta di collaborazione fattagli, sulla base della sua capacità di confezionare esplosivi. Il 10 aprile Misso, rientrato dal Brasile, viene arrestato; poco prima anche il suo sodale Galeota è stato arrestato per associazione camorristica.